Anon (2018) è un curioso noir fantascientifico di produzione tedesca approdato da poco su Netflix –non ancora disponibile per l’Italia – scritto e diretto da Andrew Niccol (Gattaca, In Time, The Host) e interpretato da Clive Owen e Amanda Seyfried. Nel film Owen interpreta Sal Frieland, un poliziotto divorziato e dedito all’alcool angosciato dalla prematura morte figlio, che svolge scrupolosamente il suo lavoro mantenendo un atteggiamento freddo e distaccato. Ogni delitto o crimine sembra scivolargli addosso nella più totale indifferenza, anche a causa della distanza posta dai nuovi media e dalle nuove tecniche di indagine. Un impianto situato all’interno dell’occhio, infatti, permette a chiunque di osservare una realtà aumentata, visivamente catalogata ed etichettata (tramite pop up), riavvolgibile, replicabile e salvabile in ogni suo aspetto sensibile e, cosa non da poco, facilmente condivisibile. Avere un contatto pieno delle informazioni consente a Sal non solo di navigare agilmente tra gli antefatti e i contatti di vittime e testimoni, risolvendo prontamente i casi assegnatigli, ma gli consente di passare in modo rapido e compulsivo tra il lavoro e vita privata, tra i corpi senza vita di perfetti sconosciuti e quello virtualmente pieno di vita dell’amato figlio deceduto. Almeno fino a quando un hacker non interviene a minacciare il suo lavoro e la sua banca dati affettiva…
Anon, per una buona metà, è un interessante e ben sviluppato noir che colpisce, più che per la sua trama, per il complesso impianto visivo, su cui si fonda tutto il suo mistero. Si va dalle scelte fotografiche, come i viraggi grigi e metallici e l’illuminazione poco contrastata – capaci di “spegnere” anche la fulgida avvenenza della Seyfried – alle diverse soluzioni di regia, articolate sui cambi e sugli scambi del punto di vista – che si servono di e addirittura superano quelle fenomenali viste in Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995) – trovate capaci di disorientare e incuriosire lo spettatore. Inoltre, i consistenti contenuti soft porn, seppur livellati e sviliti nella loro meccanica “riproducibile” e non “riproduttiva” (differiti, riavvolti, accelerati), non paiono essere qui un mero escamotage attrattivo, ma rappresentano a tutti gli effetti l’unico movente valido per ogni desiderio di cancellazione, con o senza crimine annesso. L’erotismo, perciò, riveste all’interno del film un fascino non solo estetico, bensì significante, capace di restituire umanità a figure che sembrano sempre più simili a robot.
Se per lo sviluppo del plot – articolato attraverso la frammentazione e rifrazione del punto di vista – mantiene un ruolo fondamentale la lezione appresa in Strange Days, specie per tutto ciò che concerne la soggettiva (l’esperire e il sapere), il coinvolgimento con lo spettatore è invece attivato mediante la collocazione (prima) e rimozione (poi) dell’oggettiva (l’assenza fisica e la sostituzione virtuale) che inevitabilmente lascia dei vuoti che possono rivelarsi distruttivi e letali.
Purtroppo l’errore – se così vogliamo chiamarlo – di Anon, è che invece di puntare sull’esasperazione di quell’assenza, di portarla fino in fondo concedendosi un epilogo decostruito e/o enigmatico, preferisce (a mezz’ora dalla fine) tornare a dedicarsi al plot, al caso da risolvere, optando per la più facile delle risoluzioni – passo falso peraltro riscontrabile in molti film di Andrew Niccol che, in genere, mancano proprio di azzardo. Perché diciamolo: se Anon non può vantare la trama avvincente e concitata di Strange Days e non ha nemmeno il coraggio di esplorare, sperimentare o fallire clamorosamente la sua ricerca estetica, la frettolosa ripiegata finale non può che gettarlo nel limbo dei film dimenticabili. Peccato davvero.
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